Stefania Polvani

Il tempo della cura, tra “illness” e “disease”

Stefania Polvani, sociologa, direttore della struttura di educazione alla salute, coordina il laboratorio di medicina narrativa dell’asl 10 di Firenze. Co-curatrice con Armando Sarti del libro “Medicina narrativa in terapia intensiva. Storie di malattia e di cura”, Franco Angeli  2013. L’ho conosciuta un anno fa. Attraverso i suoi racconti e la lettura del suo libro ho compreso l’importanza di una ridefinizione del rapporto medico-paziente. Abbiamo un appuntamento telefonico. Ci mettiamo comode e iniziamo.

Come tu sai, mi sono trovata, come paziente, a sentire il bisogno di una medicina basata sulla narrazione. Cercando in internet ho constatato che la maggior parte delle pubblicazioni e degli articoli al riguardo sono in lingua anglosassone, molto meno in italiano. Perché?

Per due motivi: nei paesi anglosassoni esiste una più profonda e diffusa cultura della divulgazione scientifica e una maggior attitudine a pubblicare quello che fanno in termini di innovazione, progetti, esperienze. In secondo luogo, in Italia la medicina narrativa si è diffusa da 10 anni a questa parte, non prima. Oltreoceano  già negli anni ’80, Byron Good e Arthur Kleinman, entrambi docenti di antropologia medica e formatori dell’Università di Harward, avevano fondato il concetto di malattia intesa non solo in senso biomedico (disease) ma anche come riscoperta del vissuto del paziente (illness). Le loro pubblicazioni sono state per me un grande stimolo. Insieme con i miei colleghi abbiamo studiato questi argomenti che, all’inizio, ci sembravano sconfinare nel genere letterario. In seguito abbiamo capito che, usando strumenti e metodi della ricerca qualitativa, potevamo integrare la medicina basata sulle evidenze con la medicina basata sulla narrazione. Abbiamo cominciato con momenti di formazione a personale delle diverse professioni operante nelle strutture sanitarie. Ci siamo avvalsi delle pubblicazioni di B. Hurwitz and T. Greenhalgh che già negli anni 90 avevano parlato di narrazione in medicina sul British Medical Journal. Nel frattempo ci siamo arricchiti anche del pensiero di Rita Charon, della Columbia University di New York, e dell’esperienza dei suoi laboratori di formazione per i futuri medici.

E in Italia, com’è la situazione?

In Italia queste attività sono ancora poco diffuse e manca del tutto la formazione dei professionisti a livello universitario. Personalmente mi sono formata più che altro leggendo – credo che la lettura aiuti in tutti i campi della vita – mi sono appassionata, ho condiviso le letture con alcuni colleghi, abbiamo proposto alcuni progetti e da lì siamo partiti. Questi progetti realizzati nel campo della formazione ci hanno permesso due cose:

  • lavoro di gruppo multidisciplinare. Nessuno ha fatto niente da solo, erano coinvolti medici, infermieri, formatori, assistenti sociali, sociologi, psicologi, antropologi;
  • lavoro in continuità, cosa a cui io assegno molto valore; ci sono molte belle idee che, se si manifestano in modo sporadico,  restano fini a se stesse. Solo il lavoro costante e ripetuto nel tempo lascia traccia e crea un sapere.

Ma i medici dove possono ricevere una formazione in medicina narrativa?

A mio parere è venuto il momento di inserire la formazione in medicina narrativa nelle università. Prima ancora che essa diventi una pratica clinica deve partire la formazione universitaria delle diverse professioni sanitarie. La malattia è una narrazione, di questo dobbiamo renderci conto tutti.

Nei luoghi di cura la narrazione avviene in forma di dialogo o anche con esperienze di scrittura?

Di solito parlando di medicina narrativa si pensa al colloquio orale tra paziente e operatori sanitari ma ho scoperto recentemente il valore aggiunto della scrittura per praticare al meglio un’attenzione al vissuto della persona malata. Questo approccio aiuta i medici a curare meglio e con miglior efficacia.
Dare voce ai pazienti e ai familiari in forma scritta permette di raccogliere indicazioni pratiche ma soprattutto permette di accorgersi di quei vissuti umani – individuali ma ricorrenti in tutte le persone – di fronte alla malattia, alla fragilità, alla cura, eventualmente alla morte. La riflessione su questi temi può portare a una migliore organizzazione e pratica della cura ospedaliera, più rispondente al vissuto di tutte le persone coinvolte, cioè sia di chi cura, sia di chi è curato. Uno dei miei desideri è quello che in un prossimo futuro in ospedale entrino figure formate alla medicina basata sulla narrazione.

C’è qualche esempio in Italia dove si sia realizzata una pratica di medicina narrativa?

Si è notata molta intraprendenza e il pullulare di tante esperienze negli ultimi dieci anni. È nato OMNI, l’Osservatorio Nazionale di Medicina Narrativa in Italia https://www.omni-web.org dove tutti possono rappresentare  la propria esperienza di medicina narrativa; nel mese di marzo, a Ragusa, si è tenuto il primo Congresso Nazionale della SIMeN, la Società Italiana di Medicina Narrativa http://www.medicinanarrativa.it, che ha visto un altissimo numero di partecipanti. Vedo che la “famiglia” della medicina basata sulla narrazione sta crescendo. La medicina narrativa è uno dei bisogni della nostra sanità. Si tratta di riorganizzare le pratiche mediche tenendo conto della malattia anche nel suo aspetto di illness, tenendo conto che il rispetto per le persone non è buonismo o carità ma aiuta a fare migliori diagnosi, a predisporre cure più efficaci e condivise, con una migliore aderenza terapeutica. In fin dei conti se la cura funziona, si evidenzia, nel tempo, anche un risparmio economico complessivo.

La differenza linguistica tra illness e disease in italiano non esiste. Ce ne vuoi parlare?

Disease si riferisce alla malattia in senso strettamente biomedico, è il nome della malattia, per la quale ci sono  farmaci che devi assumere, controlli da fare. Illness è tutto quello che ti porti a casa quando hai capito che disease hai, è ciò che ti cambia la vita, è ciò che ti fa perdere il sonno, sono le preoccupazioni e le paure. È il vissuto, insomma. Voglio sottolineare che in Italia ci sono professionisti sanitari che sanno tutto ciò, che ne sono consapevoli e alcuni sono anche molto esperti, anche se sono orientati principalmente dai tempi e dagli obiettivi delle organizzazioni di cui fanno parte. Si tratta di rimettere in pista questo faro, questa luce che parte dai vissuti e si riverbera sulla cura determinando risultati validi sulla lunga durata. È necessario andare verso un cambiamento di paradigma.

Come paziente e come persona ho vissuto una vera e propria separazione: in ospedale la cura del “disease”; nelle associazioni o addirittura attraverso forme di sostegno privato (ad esempio psicoterapia di sostegno) la cura dell’aspetto “illness”.

Separazione è proprio la parola critica. Dobbiamo andare verso un’integrazione dei due aspetti proprio nei luoghi di cura. Il percorso è ormai avviato, ho fiducia che si possa sperare in un cambiamento di paradigma a partire dalla formazione dei professionisti, specialmente nelle università.

Per concludere, dimmi un aforisma, uno slogan che potrebbe essere efficace per focalizzare questo tema complesso.

Visto che il tempo sembra essere il nemico numero uno dei professionisti che desiderano avvicinarsi alla pratica della medicina narrativa, proporrei IL TEMPO DELLA CURA come memo da mettere sulla scrivanie, negli ambulatori e nei corridoi.

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